Coronavirus, lo studio choc: “Un infetto può contagiare anche fino a 37 giorni dopo”
Il nuovo coronavirus è un agente patogeno del quale non si conosce ancora praticamente niente, se non una manciata di informazioni che non consente alla comunità scientifica di avere certezze assolute.
Numerosi esperti stanno studiando il comportamento del Covid-19, il quale appartiene sì alla stessa famiglia delle comuni influenze, ma con sostanziali differenze, a partire dalla sua più elevata contagiosità. Proprio in merito a questo aspetto, Lancet, una rivista scientifica inglese di ambito medico, ha pubblicato una ricerca che potrebbe ribaltare i paradigmi fin qui adottati nella cura e prevenzione della misteriosa malattia.
Come sottolineato da Tpi, secondo lo studio citato servirebbero giorni ben più lunghi di “possibilità di contagio” rispetto a quelli fin qui presi considerazione. Stando al contenuto del paper, un contagiato sarebbe in grado di trasmettere il coronavirus – e quindi di infettare – dagli 8 ai 37 giorni, con una media di circa 20 giorni.
La ricerca si basa su un campione di 191 pazienti ricoverati presso il Jinyintan Hospital and Wuhan Pulmonary Hospital. Ben 137 di questi sono stati dimessi mentre gli altri 54 sono deceduti all’interno della struttura. I risultati da laboratorio hanno evidenziato che 12 sono i giorni della durata media della febbre, 13 quelli che intercorrono fino ai miglioramenti della tosse e della mancanza di respiro. In definitiva il tempo medio della durata della malattia fino alla guarigione totale sarebbe di 22 giorni, mentre la media dei giorni che ha portato molti pazienti alla morte si attesta intorno ai 18.5.
Studi e ricerche sul coronavirus
Scendendo nel dettaglio, lo studio si sofferma inoltre sui principali fattori di rischio che possono condurre un paziente infetto alla morte. Oltre alle patologie pregresse, sarebbero da prendere in considerazione anche sepsi e problemi legati alla coagulazione del sangue.
Fra le altre ricerche da citare, Mauro Minelli, immunologo e responsabile per il centro sud della Fondazione Italiana Medicina Personalizzata, fa luce su uno studio pubblicato sul Chinese Journal of Tuberculosis and Respiratory Diseases, condotto nel Tonhji Hospital su 29 pazienti affetti da polmonite indotta da Covid-19.
Il paper parla di “spie” nel sangue in grado ai aiutare i medici a capire meglio evoluzione e gravità della polmonite da nuovo coronavirus. “Si chiamano citochine – spiega Minelli – funzionano come segnali di comunicazione tra sistema immunitario e cellule e tessuti dell’organismo, e in alcuni casi sono in grado di promuovere e mantenere importanti processi infiammatori. L’aumento nel sangue di due di queste sostanze, la Interleuchina 6 (IL 6) e il recettore della Interleuchina 2 (IL-2R), può far capire ai medici l’evoluzione e la gravità della polmonite da Covid-19”.