Antibiotico-resistenza: diecimila morti solo in Italia
Un fenomeno naturale, tra i principali problemi di sanità pubblica globale, dalle conseguenze sanitarie, sociali ed economiche. L’antibiotico-resistenza è la capacità di un batterio di resistere all’azione di uno o più farmaci antibiotici, di sopravvivere e moltiplicarsi anche in loro presenza. Da tempo l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha proposto linee guida e strategie per gestire il fenomeno. L’approccio scelto è quello ‘One Health’: valutare in modo integrato la salute di uomo, animali e ambiente.
Il G20
L’importanza del tema è stata ribadita al G20 Salute, vertice internazionale sui temi sanitari che si è svolto il 5 e 6 settembre a Roma, presso i Musei Capitolini. “La resistenza agli antibiotici è una pandemia silenziosa, una minaccia sempre presente”, ha affermato Stella Kyriakides, commissaria Ue per la Salute e la Sicurezza alimentare, che ha ribadito il sostegno dell’Unione a un accordo internazionale sulle pandemie che includa disposizioni sulla resistenza antimicrobica.
La storia
Gli antibiotici hanno rivoluzionato la storia della medicina. Nel 1928 lo scienziato scozzese Alexander Fleming descrisse per primo la penicillina, ma già alla fine del diciannovesimo secolo un ufficiale medico del Corpo Sanitario della Marina Militare era sulla strada giusta: Vincenzo Tiberio aveva notato come delle muffe fossero in grado di uccidere alcuni batteri. Fu alla fine degli anni Trenta del Novecento che venne dato vigore agli studi di Fleming e nel 1941 il primo essere umano sperimentò la penicillina. Poi la scoperta di ulteriori classi di antibiotici, applicate a diverse malattie. Fino all’utilizzo diffuso.
Come fanno i batteri a resistere
La resistenza può essere naturale o acquisita, cioè stimolata da una precedente esposizione all’antibiotico. Può essere accelerata da usi inappropriati e assunzioni senza consulto medico. Si esercita così una pressione “selettiva” sulla popolazione batterica, favorendo la crescita di ceppi con ridotta o assente sensibilità agli antibiotici. Diversi i meccanismi: il patogeno modifica il bersaglio del farmaco (o lo sostituisce), produce enzimi che lo inattivano, usa sistemi che ne riducono l’ingresso al suo interno. “Sono farmaci che vanno utilizzati in maniera corretta, solo quando necessari e dopo prescrizione medica. Meglio ancora con un antibiogramma a disposizione, test che riporta quanto quel batterio sia suscettibile a uno più antibiotici – afferma Paolo D’Ancona, primo ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità – In ospedale si stanno implementando programmi di Stewardship antibiotica, in cui gli infettivologici, o team dedicati, coordinano l’impiego di questi medicinali in tutto l’ambito assistenziale. Si parla di perfezionare scelta, dosaggio, via e durata di somministrazione. In comunità, invece, è più complicato. Nonostante l’obbligo di ricetta rossa, c’è un utilizzo eccessivo”.
I batteri più ‘cattivi’
L’esperto sottolinea anche fattori di rischio e microrganismi più pericolosi. “In Italia l’8% dei ricoveri ospedalieri ha presentato un’infezione correlata all’assistenza, quasi sempre dovuta a patogeni resistenti, in genere malattie respiratorie, urinarie, del sangue o delle ferite chirurgiche. In passato si guardava molto ai batteri Gram positivi (Gram è un tipo di colorazione, ndr) come lo Staphylococcus aureus. Oggi il vero pericolo viene dai Gram negativi, come Pseudomonas aeruginosa, Acinetobacter sp. e Klebsiella pneumoniae, in particolare KPC, resistenti alla classe antibiotica dei carbapenemi. Una situazione delicata, perché bisogna ricorrere a combinazioni o altri antibiotici, spesso ad elevata tossicità”.
I dati
D’Ancona riporta una stima del 2019: 33 mila decessi da patogeni antibiotico-resistenti in Europa, 10 mila solo in Italia. Grazie a raccomandazioni e iniziative di organismi internazionali, sembrano arrivare i primi risultati, come dimostra l’ultimo report annuale. Pubblicato lo scorso giugno, ha analizzato dati di 30 Paesi dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo che fanno parte della rete continentale di sorveglianza del consumo di antibiotici (Esac-Net), e quelli di 15 Stati della rete Amc (Antimicrobial Medicines Consumption) dell’Oms Europa: tra il 2014 e il 2018, otto nazioni della rete Esac-Net hanno mostrato riduzioni significative nel consumo totale di questi farmaci (Danimarca -2,5%, Finlandia -5,2%, Germania -3,4%, Lussemburgo -1,3%, Paesi Bassi -1,5%, Norvegia -2,5%, Svezia -2,9% e Regno Unito -2,6%). “La consapevolezza è aumentata – ammette D’Ancona – ma sono processi molto lenti. Per cambiamenti significativi ci vorrà più tempo”.
Il Covid
Stesso motivo per cui l’impatto di Covid-19 non può essere ancora valutato. “I dati iniziali suggeriscono che non ci sono stati grandi cambiamenti nella percentuale di resistenza agli antibiotici. Le misure di prevenzione (come il lavaggio delle mani) in alcuni ambienti hanno ridotto le infezioni correlate all’assistenza. Ma la pandemia ha anche comportato ricoveri più lunghi e richiesto un cambiamento nel trattamento della ventilazione meccanica, fattore di rischio per microrganismi patogeni correlati a questa strumentazione assistenziale. Non abbiamo ancora pubblicato i risultati del 2020, ma crediamo che la situazione sia rimasta quella di prima. Fare un confronto diretto è difficile”.